Articoli su Giovanni Papini

1924


Valentino Piccoli

Papini e il Vangelo

Pubblicato in: I libri del giorno, anno VII, fasc. 11, pp. 574-576
(574-575-576)
Data: novembre 1924



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   Giovanni Papini ha dettato una prefazione al Vangelo. Sono diciotto paginette di quella caratteristica prosa papiniana — calda e colorita — da cui balza sempre qualche accento inatteso, qualche improvviso bagliore, che può destare, in sulle prime, un moto di reazione. E così avviene per questo scritto che ha già suscitato, appena uscito, qualche contrasto polemico.
   Papini vuole anzi tutto determinare — senza possibilità di equivoci e di attenuazioni — la sua concezione trascendentale dell'essenza del Vangelo. Per lui, i quattro uomini che scrissero i Vangeli diedero la forma, l'ordine, la memoria — non la sostanza, che è divina. Furono umili intermediarii fra Dio e l'umanità: non altro. E i Vangeli non sono semplici fasci di parole, semplici musiche di suoni umani, ma opere di “viva o soprannaturale sostanza.„ Essi non appartengono, insomma, alla “letteratura umana„, ma sono un'attuazione della parola di Dio, tradotta nelle voci che gli uomini possono intendere.
   Stabilito questo punto, perde ogni valore la serie dei tentativi compiuti dai filologi per determinare le date precise dei Vangeli e le loro interpolazioni: contro tale “questione omerica„ applicata ai libri sacri, Giovanni Papini, coerente all'assunto iniziale, lancia i suoi strali. Su ciò del resto, egli si era già espresso in modo inequivocabile nella prefazione alla Storia di Cristo.
   Ma dalla tesi iniziale deriva anche un'altra conseguenza: i Vangeli devono essere amati e intuiti, prima di essere elaborati con le forze imperfette dell'umana ragione. Per essi si potrebbero ripetere le ardenti parole dell'Itinerarium di San Bonaventura: “se vuoi sapere come ciò avvenga, interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l'intelletto; il palpito dell'orazione, non la cura del leggere.... Dio, non l'uomo; la caligine, non la chiarità....„ *). Su tale spunto Giovanni Papini avrebbe potuto dar vigore alla sua polemica contro le interpretazioni razionalistiche dei libri sacri e rinnovare, da un punto di vista mistico, la critica che l'antintellettualismo contemporaneo ha mosso alle orgogliose costruzioni dell'intelletto umano. Chè in questo è, io credo, uno dei legami spirituali fra il Papini d'un tempo, studioso del Bergson e del James, ed il Papini di oggi.
   Ma l'autore ha voluto rivolgersi alla grande folla dei lettori, e perciò sembra essersi deliberatamente astenuto dalle considerazioni filosofiche. Ha preferito invece illustrare la sua tesi per mezzo di esempi letterari, e questa preoccupazione — in largo senso didattica — lo ha condotto a rendere più vivo, ma forse — sotto alcuni aspetti — meno profondo, il suo scritto.
   Papini ha pensato che la via più chiara per fare intendere il carattere trascendentale del Vangelo fosse in una netta contrapposizione del Libro sacro alle massime opere della letteratura umana. E ha scelto, come bersagli espiatori, le vette più alte: Omero, Eschilo, Dante, Platone, Goethe.... “L'Aridromaca piangente di Omero, egli ha scritto, di fronte alla Vergine sul Calvario è una comparsa da melodramma; Ulisse veleggiante per tornare alla sposa è un manichino fiabesco accanto al figlio prodigo che ricerca il padre, accanto al pastore che ricerca la pecora perduta. Eschilo, col suo Prometeo corteggiato dalle oceanidi, non ha mai composto una tragedia così terribile come quella che si chiude sul Calvario. Dante stesso non è che un meraviglioso affrescatore della rivelazione e tradizione cristiana e nelle terzine più paurose non raggiunge l'efficacia del semplice Discorso profetico che Gesù pronunziò sull'altura, in cospetto del Tempio condannato. Lo stesso Platone non comprenderebbe tutti i mistici abissi che sono nel Quarto Vangelo, e la stregheria del Faust goethiano si scioglierebbe in gocciole di vapor sudicio, come un'allucinazione sabbatica, all'improvviso raggiare d'una sola Beatitudine....„.
   È una pagina destinata a suscitare proteste, sopra tutto da parte di chi veda in essa una rapida stroncatura dei massimi capilavori del genio umano. Ma la pagina papiniana non vuole essere questo: vuole soltanto affermare l'inferiorità di ogni umana opera in confronto a ciò che è divino. “Comparsa da melodramma„ è chiamata, per esempio, la viva e pietosa figura di Andromaca, solo se è posta “di fronte alla Vergine sul Calvario.„ Non bisogna quindi attribuire a queste espressioni il significato di una valutazione critica dell'opera umana. D'altra parte, lo stesso Papini, nella pagina seguente,


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mostra di apprezzar& il valore delle letterature, considerandole come un perenne commento — a volta a volta apologetico o polemico — compiuto, nel divenire dei secoli, sulla verità del Vangelo. E, nei tre più amari scrittori dell'umanità — Machiavelli, Shakespeare, Leopardi —trova le dimostrazioni “di quel che sarebbe il mondo senza Dio, l'uomo senza Cristo.„

*
  Troppo netto appare, tuttavia, nello scritto papiniano, il distacco fra i Vangeli e la letteratura umana. Ciò si nota particolarmente per Dante, che si riduce a semplice “affrescatore della rivelazione e tradizione cristiana.„ Ed è poco, mi sembra, anche agli occhi della più rigida concezione cattolica. Vi sono certe opere di suprema bellezza che le sole forze limitate dell'intelletto e della fantasia non giungono a compiere. L'artista è grande, quando vibra nel quo spirito una forza che sembra superare i limiti dello spirito stesso, sì che l'opera creata trascende le povere forze umane. E quella partecipazione dell'anima con l'essenza divina che Platone adombrò nel concetto di metessi; è quell'intimo attivo rapporto fra Dio e l'anima individuata, che inspirò le concezioni dei mistici agostiniani, dei Vittorini e di Dante. Ne risultano opere eterne, che s'impongono in modo universale a tutti i popoli, oltre i vincoli ristretti del tempo, perché è in esse qualche cosa che non è puramente umano. Chi si ponga da questo punto di vista, chi cioè ammetta la possibilità di una genesi trascendentale dell'opera d'arte, non può credere — con Papini — che la Commedia sia creazione prettamente terrena: è in essa l'impronta di bellezze e realtà assolute, che Dante dovè sentire in se come dettate da una di quelle misteriose voci interiori di cui parlano — per esperienza provata — i mistici di tutti i tempi. Nè forse errava San Bernardino da Siena, quando citava la Divina Commedia come un testo sacro. È in essa quel superamento dell'eterna antitesi fra umano e divino, in cui si attua la più profonda essenza della concezione cristiana. 1). Nè ciò poteva avvenire senza una penetrazione interiore della tradizione, assai più profonda ed intensa della visione esterna d'un semplice affrescatore. Ma mi avvedo che questa polemichetta dantesca mi vorrebbe condurre fuori d'argomento, sino a tratteggiare i principi di un'estetica, che a molti potrebbe sembrare o troppo antica o troppo nuova.
   Perciò m'interrompo; non posso però rinunciare ad esporre un'altra considerazione che mi è stata dettata dallo scritto papiniano: una volta concepito il Vangelo come opera di sostanza divina, come può un uomo scrivere su di esso una prefazione? Tutto ciò che Papini afferma tende a rendere inaccettabile qualunque voce umana che voglia servire di introduzione a ciò che è completo in se stesso. E, nel far questa riflessione, Giovanni Papini mi è sembrato avvinto in una di quelle interiori contraddizioni che formarono il fascino dell'opera sua d'altri tempi.... Bisogna però ricordare che la prefazione papiniana ha un valore puramente divulgativo, ne certo presume aggiungere nulla ai Vangeli. È, più che altro, una confessione dell'autore, che ci dice con quale spirito egli si accosti all'opera sacra. È anche, alla sua guisa, uno scritto informativo e tratteggia — in poche pagine di incisiva efficacia — i profili umani dei quattro evangelisti. Non è dunque il caso di parlare seriamente di una vera contraddizione: tuttavia sarebbe forse opportuno che lo scritto di Papini venisse posto al termine del libro, come si fa con gli scolii, nelle opere dei classici della Chiesa. Così si seguirebbe più rigidamente l'ordine naturale di una concezione che alla parola rivelata fa seguire i commenti di pensiero o d'arte, tentati tormentosamente dall'umano intelletto.

*
   L'esame delle pagine papiniane stava quasi per farmi lasciar da parte gli altri aspetta di questa novissima edizione del Vangelo. 2). E sarebbe stata un'ingiustizia, poi che si tratta di una pubblicazione compiuta con dottrina ed amore. Il testo del Vangelo è stato ritradotto da monsignor Grammatica, ex-prefetto dell'Ambrosiana, e dal sacerdote Giovanni Castoldi. Questa nuova versione è scritta ò


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in uno stile semplice e piano, volutamente disadorno, ma non privo di eleganza e d'efficacia. Il testo è corredato, qua e là, di brevi note di carattere prevalentemente informativo; la parte illustrativa è formata da un frontespizio del Cisari e da parecchie riproduzioni di pitture di Giotto e del Beato Angelico. Tutto l'insieme, sobrio ed elegante a un tempo, invoglia alla lettura.
   E questa è forse la più importante qualità della nuova edizione. Chè nel secolo ventesimo, forse più che in ogni altro tempo, è veramente utile invogliare gli uomini — assillati da desideri edonistici di ricchezza e di potenza — alla lettura del Vangelo.
   Ma, spesso, leggere non basta....


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